Per la Corte di Cassazione aggravare inutilmente la posizione del debitore, mediante la moltiplicazione delle azioni esecutive, con il conseguente aumento dei costi della procedura, configura un abuso del processo.
Da tale condotta esiterebbero anche delle derive deontologiche, poiché l’avvocato di parte creditrice rischierebbe una sanzione se contribuisse ad appesantire con onerose o plurime iniziative giudiziali la situazione debitoria della controparte, qualora ciò non corrispondesse ad effettive ragioni di tutela della parte assistita.
La Corte di Cassazione, terza sezione civile, nell’ordinanza n.15077/2021, ha respinto il ricorso di un creditore in possesso di ben cinque titoli esecutivi, il quale aveva dato seguito ad altrettante azioni di esecuzione forzata nei confronti della parte debitrice, nelle forme del pignoramento presso terzi. Queste furono oggetto di riunione da parte del Tribunale, nella veste di giudice dell’esecuzione, ed al creditore vennero assegnate le somme precettate, più ulteriori esborsi a titolo di compensi e spese.
La vicenda, dunque, è giunta in Cassazione a seguito del rigetto dell’opposizione contro l’ordinanza di assegnazione, con cui il creditore lamentava la sottostima tanto delle spese quanto degli onorari.
I giudici di legittimità ritengono di confermare la decisione del Tribunale, il quale ha fondato la propria decisione di rigetto dell’opposizione anche su una seconda ed autonoma ratio decidendi: e cioè che il creditore non può pretendere di addossare al debitore spese scaturenti dalla scelta di avvalersi di “mezzi di tutela più onerosi, quando nel caso concreto dispone di strumenti alternativi, che gli consentono di ottenere lo stesso grado di tutela”.
La decisione impugnata è considerata dagli Ermellini corretta in diritto e fondata in fatto. “In punto di diritto, costituisce principio generale tanto del diritto delle obbligazioni (art. 1175 c.c.), quanto del diritto processuale (artt. 88, 175 c.p.c.), il dovere di comportarsi con correttezza e buona fede. Tra le innumerevoli declinazioni di questo principio, vi è quella per cui non è consentito al creditore aggravare inutilmente la posizione del debitore, abusando del processo”.
La Suprema Corte prosegue: “secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte l’abuso del processo è una condotta caratterizzata da un elemento oggettivo ed uno soggettivo. Sul piano oggettivo si ha abuso del processo quando lo strumento processuale viene utilizzato per fini diversi ed ulteriori da quelli suoi propri, ed illegittimi. Non, dunque, per tutelare diritti conculcati, ma per crearne di nuovi (ed ingiustificati) ad arte, ovvero per nuocere con intenti emulativi alla controparte. Sul piano soggettivo si ha abuso del processo quando la condotta di cui sopra venga tenuta in violazione del generale dovere di correttezza (art. 1175 c.c.) e buona fede (art. 1375 c.c.). Il dovere di correttezza (come si legge al p. 558 della Relazione al codice civile) “è (…) spirito di lealtà, (…) di chiarezza e di coerenza, fedeltà e rispetto a quei doveri che, secondo la coscienza generale, devono essere osservati nei rapporti tra consociati”, e consiste nel richiamare il creditore a prendere in considerazione l’interesse del debitore”.
Secondo la Corte, dunque, in sede esecutiva, costituisce abuso del processo la moltiplicazione delle iniziative esecutive che, senza frutto per il creditore, hanno l’unico effetto di far lievitare i costi della procedura. Tale condotta, processualmente illecita, lo è anche sul piano deontologico ai sensi dell’art. 66 del codice deontologico forense (il quale stabilisce che “l’avvocato non deve aggravare con onerose o plurime iniziative giudiziali la situazione debitoria della controparte, quando ciò non corrisponda ad effettive ragioni di tutela della parte assistita”), come già ripetutamente affermato dalla Corte di Cassazione (ex multis, Sez. U., Sentenza n. 27897 del 23.11.2017). Conseguenza di simili condotte non può che essere l’irripetibilità delle spese superflue o, peggio, fatte lievitare ad arte dal creditore: irripetibilità che, quand’anche non esistesse l’art. 92 c.p.c., comma 2, o non se ne volesse predicare l’applicabilità al processo esecutivo, comunque discenderebbe dalla violazione dei ricordati doveri di correttezza e buona fede, e prima ancora sul principio di autoresponsabilità, di cui è espressione dell’art. 1227 c.c., comma 2.
Corte di Cassazione, III sez. civ., Ordinanza n.15077 del 31.05.2021